Risposta alla recensione di Clare Carlisle, All Things in Relation to God

Risposta alla recensione di Clare Carlisle, All Things in Relation to God


Ho letto con attenzione la recensione su Davison. Di particolare interesse mi sembra il pensiero di Davison esposto dal recensore nel brano che riporto:

Davison’s resistance to the idea of being in God may be partly due to his emphasis on Aristotle’s analysis of causation, and its appropriation by Aquinas. He uses this fourfold analysis to structure the first part of his book, examining God’s activity as the efficient, formal and final cause of creation, and explaining why God is not a material cause – not, in other words, the matter from which the universe is made, but the creator of matter. Aristotle distinguished these four causes in order to understand intraworldly processes of natural and artificial becoming; transferring this conceptual framework to God, it is plainly difficult to make sense of a productive process that does not cast effects outside their cause, but allows them to rest within it. Perhaps Aquinas’s more conservative contemporaries were right, after all, to be suspicious of this new-fangled naturalistic philosophy.

In questo passo viene riferito un tema per me molto rilevante. Esso riguarda il principio di causa e la sua applicazione a Dio. Il principio di causa, a mio avviso, va bene o ‘funziona’ per spiegare i processi intramondani, ma funziona molto meno quando viene usato per dar conto del rapporto con Dio o, meglio, tra Dio come essere assoluto e gli enti. Gli enti non sono estrinseci a Dio e all’essere assoluto, sebbene non siano a lui identici. Occorre pensare sia l’identità con Dio, consistente nella positività di tutto ciò che è (nessun ente viene dal nulla e va nel nulla), sia la differenza da Dio, consistente nel fatto che gli enti (cui compete l’essere) non hanno però la pienezza dell’essere, che in Dio è da sempre attuale. Per questo motivo ritengo che occorra una metafisica ‘oltre la causalità’ o depurata dall’uso della categoria della causa, come ho cercato di dire, oltre che nel saggio pubblicato in “Eternity and Contradiction”, n. 3, anche in un altro dal titolo L’essere tra incondizionato e condizionato. Oltre il realismo presupposto e la metafisica della causalità, in R. Pozzo e M. Tedeschini, L’essere dopo la metafisica moderna, Mimesis, Milano-Udine 2021, pp. 131-151.

Inoltre, il passo che si legge quasi al termine della recensione e la conclusione, nonostante sia un po’ sibillina, potrebbero stimolare a precisare l’idea di “partecipazione”. Vale la pena riprendere il passo:

More conducive to this Aristotelian account, though, is the use of the concept of gift to interpret God’s continuing creative activity. For Davison, this biblically grounded view (“every good and perfect gift is from above”) ticks the orthodox boxes, and keeps the theologically unpalatable extremes of deism and pantheism at bay. But without a robust sense of participation in God’s gift-giving being, as the native element of all things, God’s omnipresence and sustaining intimacy seem to fade a little from view. My question for Andrew Davison, then, is whether being in God is a fundamental insight articulated in the Bible and developed through the Christian tradition (and also, incidentally, in other theistic traditions), which was elucidated in a particular way by Aquinas through the concept of participation. Or is this concept of participation itself the more fundamental insight, which should prompt us to let go of the challenging notion of being in God? Participation in God seems to incline towards the latter view, which is, I think, the narrower way.

La “partecipazione” potrebbe essere intesa, a mio avviso, come inerenza a Dio, seppure nella differenza, e non come esito di una causazione (tanto meno se la causazione significa trarre l’ente dal nulla). La questione mi sembra cruciale se si vuole superare l’imputazione di nichilismo rivolta alla metafisica (specialmente, sebbene non esclusivamente, nella critica sviluppata da Emanuele Severino, la quale, come è noto, si inserisce nella denuncia più generale della “alienazione” che inficerebbe l’intero pensiero dell’Occidente). Insomma, ci sarebbe molto pane da mettere sotto i denti!

Per chi abbia la pazienza di leggerla, la recensione di Carlisle mi sembra offrire argomenti cospicui per le Quaestiones disputandae e suscitare discussioni sia sul piano storiografico (anche per colmare indubbie omissioni) sia sul piano teoretico.

Francesco Totaro

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